Biography:
Su “Alice nel paese delle meraviglie” che, al pari di Pinocchio è stato a lungo considerato come un libro destinato esclusivamente alle letture infantili, appunta la propria attenzione Mogni. In realtà il capolavoro del reverendo Carrol (che scrisse, va ricordato, numerosi trattati scientifici e rimase per anni nel Christ Church College di Oxford come lettore di matematica pura) nasconde sotto il velo della favola una logica corrosiva. Carrol sfrutta infatti la capacità infantile di osservare con candore la realtà per mettere a nudo assurdità e incoerenze della vita adulta. Non a caso nel meccanismo delle sue opere - basato sul gioco delle carte in “Alice” e su quello degli scacchi nel seguito di “Attraverso lo specchio” - gli studi più recenti hanno individuato la presenza di problemi logico-matematici elaborati da un abilissimo costruttore dell’assurdo. E’ il grimaldello che forse ha dato lo spunto a Mogni per attuare il passaggio dalla favola all’incubo prelevando Alice dal microcosmo bizzarro e favoloso dell’età vittoriana per trasferirla, distorcendone i tratti, nella realtà ghiacciata e agghiacciante del mondo contemporaneo. Basti osservare, per tutti, il dipinto “Alice e il Bianconiglio nel Petrolchimico delle Meraviglie” per cogliere l’inquietante forza evocativa di un “realismo mentale” sapientemente giocato tra evidenze “fotografiche”, suggestioni metafisiche e trasalimenti surreali: con la sua fissità muta e lo sguardo che trapassa lo spettatore, Alice è lontana anni luce dalle fanciulle acerbe e un po’ ingenue che Carrol amava fotografare e aggiunge inquietudine a inquietudine la presenza straniante del coniglio che brandisce una chiave inglese sullo sfondo fosforescente del petrolchimico, allusione a una possibile catastrofe sempre in agguato.
Silvio Riolfo Marengo: “Pagine dipinte: la poetica della visione” 2011
Il suo lavoro promana una forza, una tensione interiore davvero particolare, intensa. Il soggetto è collocato nel “nulla” del fondale scenografico ricco di colore nero, alla maniera caravaggesca. Mogni conosce che la pittura ha regole, passato, necessità e la sua figurazione, incapsulata in un’aura propria, posta in una sorta di movimento cinetico del suo essere, sfiora la vertigine dell’assoluto. Questa pittura è un grido, una distorsione, una lesione degli schemi ricorrenti. Lo spazio, così oscuro e che può contenere il bene ed il male, spalanca il dubbio all’osservatore. L’io e l’esterno, in qualche modo, vengono a convergere in una visione che annulla il tempo, non c’è più un prima ed un dopo. Nasce, così, una figura riconoscibile, strappata alle regole, riportata al dialogo, alla lettura, dentro e fuori alla storia, dentro e fuori all’uomo. Figure ricche di memoria, di personalità, di psicologia del profondo. Marcello Mogni ci offre il suo grido doloroso di un uomo che aspira ad un futuro, ad un nuovo segno e che non vuole soltanto sopravvivere nel mondo contemporaneo.
Silvia Bottaro 2008
Un viso luminoso, appena percepibile nei lineamenti, dipinto da Marcello Mogni con criteri realistici e tratto da fotografie di giornali alla moda, appare alla visione come un’enigmatica e inquietante presenza che si sottrae all’operazione di codifica poiché i tratti distintivi denunciano evidenti rimozioni. Un po’ come succede quando si alita sullo specchio: si appanna l’immagine riflessa pur individuandone le fattezze.
Vi si sovrappone inoltre l’idea mentale d’un campo magnetico attraverso la sequenza di “bande” verticali (od orizzontali) che solcano la superficie pittorica allo stesso modo dei “disturbi” televisivi che offendono la visione. L’artista dipinge infatti forme non pienamente concluse e concentra l’attenzione sui guasti prodotti dalle “bande visive” che attraversano il campo pittorico affinché ne sconvolgano le strutture. Una pittura, quella di Mogni, che nasce dal confronto con reperti fotografici ulteriormente distrutti, spostando così il senso da uno stato d’istantaneità a quello di costruzione codificante: “di pittura sulla pittura” come immagine di luce che si dissolve per fornire la sua quintessenza. E ancora, gli inquietanti personaggi dipinti sembrano assumere valore totemico nell’esaltante aura che li circonda; aura quale segno d’interiorità psicologica e quale energia galvanica capace di librare nel vasto magma dell’inconscio. Tali figuralità, a metà tra apparizione e realtà fisica, tra interiorità dell’essere ed esteriorità mondana, sembrano allora transitare eterei sulla scena, ora abbagliati dalle luci di vetrine ora da fari d’automobile o da vetri specchianti delle abitazioni, o ancora, immersi in fosche e funamboliche atmosfere così da oltrepassare i confini della materia per suggellare un abbraccio tra immanenza e trascendenza, tra Eros e Thanatos, tra vita e morte.
D’altra parte il filosofo Paul Virilio ci suggerisce che stiamo assistendo ad un’apocalisse, cioè “alla fine di un mondo che vede la nascita di quello nuovo”: da qui il pericolo “di un’estetica siderale della sparizione e non più dell’apparenza”. Per questo motivo l’arte “… nella fase della globalizzazione, per tentare di esistere può fare riferimento al corpo, l’ultima cosa che resiste”.
Ed è certamente quello a cui pensa Marcello Mogni quando colloca in ambiti urbani le sue fantasmatiche figuralità come possibili habeas corpus, vale a dire personaggi che portano il loro corpo: una sorta di parvenze spettrali che denunciano sì la sparizione, ma al contempo sanno proporre una futuribile identità, sebbene in dissolvenza.
Miriam Cristaldi 2001
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