Biography:
NASCE A ROMA NEL 1963 STUDI LICEALI LAUREATO A PISA IN INGEGNERIA EDILE – URBANISTICA NEL 1991 -
SI DEDICA ALL’ARCHITETTURA ED ALLA PITTURA FIN DAI PRIMI ANNI DI PROFESSIONE ABBRACCIANDO LE NUOVE TEMATICHE POSTMODERNE SULLA BASE DELLE RICERCHE FILOSOFICHE INIZIATE DA JACQUES DERRIDA SULLA DECOSTRUZIONE NELLA LETTERATURA E NELL’ARTE (PITTURA E ARCHITETTURA). NELLO STESSO TEMPO PROSEGUE LA PROPRIA RICERCA BASATA SULLE PROBLEMATICHE DELL’INTERPRETAZIONE, SULLA SEMIOLOGIA E SULL’ERMENEUTICA DELLA VISUALITÀ.
LA TECNICA PREVALENTE È ACRILICO SU TELA. ATTUALMENTE ELABORA IN DIGITALE ASSOCIAZIONI DI IMMAGINI ORIGINALI O TRATTE DAL WEB PER STAMPARLE SU SUPPORTI MORBIDI O RIGIDI. LE DIMENSIONI DEI QUADRI VANNO DA 100X100 A 200X300 CON MEDIA SU 140X140 E 180X180
Oltre il “barcode”
La ricostruzione necessaria di un’etica in arte
(dal catalogo della personale in programma dal 10 novembre a Pescara)
di Antonio Zimarino
"[…] In moltissime esperienze d’arte esiste ancora e si manifesta con varia decisione e chiarezza, una etica e una dignità dell’artista, perché esiste ancora la capacità tutta autenticamente umana, di condividere, di arrabbiarsi, di indignarsi, di ascoltare, di provare a capire. Esiste ancora la necessità di andare a fondo nelle questioni esistenziali e sociali soprattutto in quegli artisti che hanno la coscienza di vivere e affrontare sulla propria pelle l’evidenza della frustrazione, dell’ingiustizia, della povertà, del disagio, dell’emarginazione. Sono queste persone e artisti che vedono e si prendono la briga di esprimere pareri, di scegliere posizioni a riguardo perché ritengono prioritario ciò che è “umano” rispetto a ciò che può essere vendibile. Essere aperti alla discussione, ai problemi e all’etica sociale è componente forte dell’identità di coloro che sono eticamente distanti dalle ragioni mercantili. E se da un lato questa scelta li può tener distanti da un mercato “grasso”, dall’altro li avvicina notevolmente da ciò che è davvero importante in arte: costruire cultura, proporre “senso” e possibilità di capire o di orientarsi dentro le questioni che stanno al cuore del mondo e della società in cui si vive.
Ed è questo il quadro concettuale e analitico entro cui penso sia necessario leggere il senso di questa mostra, perché Danilo Verticelli è di quegli artisti che traggono forza e identità esattamente dalla sostanza etica del proprio pensare alla realtà concreta.
Credo che ciò sia evidente nella scelta e nella elaborazione che Danilo riesce a compiere e a condurre tra soggetto e elaborazione cromatica e formale: la deformazione o il riequilibrio del segno, l’altissima gamma cromatica contrastante come continua tensione emotiva, il tema iconografico del codice a barre, nuova pietra angolare di ogni identità, strumento di normalizzazione di storie e di tragedie, sono tutti dati visuali che ribadiscono una decisa presa di posizione di fronte a singole situazioni e a complesse implicazioni storico, sociali e mediatiche. Queste evidenze formali dimostrano che Verticelli non può rinunciare ad occuparsi della realtà, perché l’artista che è in primis, uomo del suo tempo, non può rinunciare a sentire una sorta di solidarietà con le cose, le persone, le esperienze e i pensieri, oggi alle prese con la tragedia più sottile e ambigua del contemporaneo che è appunto, la nullificazione del senso della realtà.
Il dramma della droga, le conseguenze della guerra irachena, la violenza del terrorismo, gli ideali e gli obiettivi di uguaglianza e giustizia sociale, l’uso delle cellule staminali … tutto è oggi è venduto o vendibile e in quanto tale, sottoposto alla legge superiore dell’eventuale utilità mercantile, al punto che quelli che sono stati e sono drammi umani, stravolgimenti sociali, idealità profonda che pur ancora le immagini potrebbero ricordarci, trovando una loro collocazione sul bancone, vengono serializzati dal trademark e resi disponibili, magari, per venderci la nuova Cinquecento o un paio di mutande. In questa situazione di dissoluzione del senso originario delle immagini generate da una insensata saturazione mediatica, anche l’identità storica si percepisce attraverso il possesso simbolico dell’oggetto, senza che si senta la reale necessità di comprenderla nella verità del percorso che l’ha resa tale. Le immagini della dura verità, della storia, dell’identità diventano proprietà manipolabile e vendibile al miglior offerente e diventa così stravolta la percezione stessa della nostra identità storica
Cosa resta di quelle verità, di quel dolore, di quei drammi dopo che il mercato immaginale se ne appropria attraverso un sistema retorico di ripetizioni disarticolate, capaci di arrivare alla nullificazione della sua realtà originaria?
La denuncia della pittura di Verticelli è implicitamente un richiamo profondo al riappropriarsi dell’identità e dell’impegno sociale: sotto c’è l’indignazione, direi, l’incazzatura costante per ogni mistificazione, falsità, manipolazione, ingiustizia. C’è dunque il desiderio implicito che così non debba essere, che la persona torni ad essere e a dire la verità delle cose.
Le opere di Verticelli si riappropriano di una funzione eticamente sensata che tenta di portare dentro il sistema dell’arte, in un linguaggio pop comunque leggibile, il “trojan horse”, il virus della latina “indignatio”: il mezzo pittorico raffinatissimo attira nella sua rutilante spettacolarità e nel suo somigliare apparente alla “leggerezza” pubblicitaria, per poi metterci di fronte ad una palese carica urticante e stridente generata dal recupero del senso reale di una immagine che pian piano l’occhio decodifica, che è l’immagine evocativa di tragedie realissime, nemmeno troppo distanti da noi.
Stando così a quanto detto prima nel quadro teorico di riferimento, appare chiaro che Verticelli ha compiuto un salto “esistenziale” atipico ma assolutamente necessario nel contesto dell’arte italiana contemporanea: non ci può essere reale funzione o sostanza d’arte se essa non rimanda ad un realtà cosciente e condivisa. La sua è dunque una posizione generata dalla necessità di dare senso al proprio fare, un senso che non sta nel compiacere l’acquirente, quanto nel rispondere ad una propria coscienza umanistica e civile. Ecco un esempio di etica artistica: non inseguire il compiacimento di pochi, blandendoli nelle loro autoconvinzioni, ma tentare di conservare la verità del senso ad una storia, ad un tempo, ad una condizione che io condivido con una società più vasta a cui non si può fare a meno di appartenere. Una società più vera, più interessante, più autenticamente umana di quella percepibile e comprensibile da chi resta chiuso nelle autoreferenze di una presunzione egotista.
Quella di Verticelli non è un arte che ha come scopo la ricerca l’acquirente, ma intende interrogare con forza la persona, l’essere umano che si sente parte di una società civile. E non si limita a risolvere la propria provocazione nella semplice evidenza iconografica, ma elabora un sistema espressivo complesso e articolato nei suoi equilibri segnici e cromatici. Questo sistema di “relazione” tra elementi formali, appartiene ad una sensibilità visuale assolutamente attuale, perfettamente dentro i linguaggi della ricerca artistica d’oggi. Per questa ragione pensiamo che la grande differenza qualitativa di questo modo di “fare arte” stia esattamente nella capacità di coniugare alla forma della modernità, un pensiero credibile e condivisibile sulla stessa modernità.
Esiste dunque un’arte che ha da dire qualcosa, esiste ancora un pensiero da esprimere, una dignità da difendere, una medesimezza tra artista e società reale. Ma si potrà dimostrare che esiste un pubblico che la esige? Si potrà costruire un mercato virtuoso in cui chi acquista arte la sceglie per ciò che essa dice e non solo per lo status di riconoscibilità che essa fornisce? Non ha forse pieno diritto quest’arte eticamente credibile ad essere dentro le case, dentro le gallerie, dentro le riviste di chi desidera essere eticamente credibile?"
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“La comunicazione è senso,ma accade talvolta che i suoi stati irreali sono attraversati da voci ambigue e da rotti silenzi . I dipinti recenti di Danilo Verticelli, figura nuova e verosimile dell’arte italiana in quello svolgersi di new pop, interrogano, come nessun altro oggi osa, la storia del presente straripante di moine e di sberleffi, di ombre e spietatezze, di maschere e di percezioni. E alla storia del fingere e dell’apparire Verticelli, dalle periferie del vuoto, fa fruttificare la percezione quotidiana dell’esistenza letta, con ironia e intelligenza. Il giovane artista si interroga sul movimento dello spazio con segni e segnali ,evocando improbabili leggende private tramite una sorta di grammatica nuova del visivo con ritmi di ardita luce e colore. Vi troviamo viaggi di cui ci restano queste reliquie, cariche di minuziosi ricordi, di frasi e di gesti, di souvenirs e di conflitti, di domini segreti e amorosi. Un breviario che incornicia nei gesti descritti qualità comunicative ed emozionali di prim’ordine, e finanche scene che, o irritanti o di maniera, scavano, reinventandolo, l’ermetismo dell’immagine ”.
Carlo Franza
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Between & While…
Ciò che non è più, ciò che non è ancora…ma semplicemente, in tutta evidenza, sta nel mezzo, in una terra di nessuno, come unico frammento possibile di solida realtà in nostro dominio: la pittura di Danilo Verticelli è assorbita dalla filosofia della decostruzione, che indaga spietatamente nelle pieghe delle false certezze.
Disposte su più piani, le linee di forza della tela si scompongono e si distribuiscono secondo un ritmo filmico: sono personificate da soggetti umani, animali, antropomorfi, dettagli di corpi ingigantiti divenendo così ancor più indifesi ed esposti alla commiserazione o alla freddezza dell’indifferenza.
La storia scaturisce dall’interno degli elementi selezionati a determinarla, dall’attenzione agli oggetti di uso quotidiano: una cravatta, un telefonino, un rossetto, un bicchiere di vino, la suola di una scarpa di una donna che cammina raccontano di ansie, manie, egocentrismo, distrazione, meschinità, mancanza di comunicazione, ma anche di un impalpabile spazio di tempo, Between & While…, che si offre come possibilità per agire o reagire all’ovvio e all’imposto.
Questo dominio fatto di tempo, labile, impalpabile, come una sottile linea divisoria, ma capace anche di costruire, è pur sempre in-formato dalle tracce del nostro essere, del nostro comportamento “performante”.
Un tempo appiattito sul presente, che ha la forma ed il colore di una landa desolata, “flat”: piatto come il colore disteso sulla tela, circoscritto non da ombre o da luci o prospettive, che danno il senso diacronico della profondità della storia, ma anche, molto banalmente, del giorno che, inesorabilmente, trascorre.
Solo la linea tracciata dalla coscienza non rinuncia a definire i contorni delle cose, non rinuncia a scrivere la propria storia, anche se fatta solo di frammenti di presente, interpretata secondo una prospettiva interna e non in grado di proiettarsi fiduciosamente nella visione spazio-temporale della realtà, che pertanto rimane piatta davanti a colui che sta guardando.
Ne scaturisce un controcanto all’inno pubblicitario di un’eterna giovinezza della memoria, che si vorrebbe rimanesse fissamente allo stato puerile, la presa di posizione nei confronti di un colpevole perenne presente dei nostri giorni, che non conoscono l’infinito né lo slancio dell’impegno nella costruzione della città futura, ma solo un’attesa spasmodica di una salvezza provvisoria, a venire, conquistata consumando acquisti e rapporti con uomini equiparati a merce.
Francesca Pepi
«[...] è stato uno dei protagonisti del Decostruttivismo italiano degli anni '90. Il suo modo elegante di vivere si riflette nella sua pittura. L'eccellente tratto del disegno è su impianti intellettuali e arditi. Il colore è gentile ma caustico. Ad oggi, una delle speranze della Pop Art.» (Enzo Neri, 2005)
«[...] la mostra Camere con vista per contro, mi è sembrata di grande rilievo. La contrapposizione tra una progettazione "ideologica" (Makovecz) ed una decisamente "tecnologica" (Verticelli), e la presenza di altri artisti noti come Portoghesi, Sottsass, Branzi, univano alla piacevolezza dell'insieme anche l'uso rinnovato di alcuni materiali [...] dobbiamo peraltro riconoscere che qualche germe di nuova progettualità non è mancato e ha fatto della rassegna veronese uno dei pochi esempi degli anni Novanta di una rinnovata volontà di recupero artigianale e di innovazione formale[...]» (Gillo Dorfles 1994) da Ottagono 03/94
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