Biography:
Antonietta Campilongo dipinge immagini che, pur nella piena autonomia della singola opera, nell’insieme tracciano un quadro articolato del nostro quotidiano. I suoi dipinti celebrano il gesto spontaneo, l’ambiente cittadino piccolo borghese, i personaggi che si possono incontrare d’abitudine. Ma l’analisi spassionata e accurata della “trance de vie” operata dall’artista ne fa risaltare l’elegia e il mistero, manifestandone l’elegia sottesa.
La pittura di Antonietta Campilongo si colloca nel generalizzato recupero della figura e del vero che ha caratterizzato molti filoni dell’arte del ‘900, in opposizione a quelle tendenze rivoluzionarie - esemplare l’avventura Dada - che avevano finito col negare l’esistenza stessa dell’arte. Già la Pop Art degli anni Sessanta, infatti, proponeva, al di là delle implicazioni critiche, un’arte aperta a forme più popolari e comprensibili. Un appello a tornare alla realtà è stato poi propugnato, sia pure sotto diverse angolature, da Iperrealismo, Transavanguardia, Pittura della memoria…Insomma, si è sempre più affermata una voglia diffusa di tornare al quadro ed alla figurazione. La Campilongo si inserisce in tale percorso di ricerca con richiami sia alla Pop Art, in particolare a James Rosenquist, sia all’Iperrealismo, con rimandi specifici a Gerhard Richter.
La sua poetica è, infatti, vicina a quella di Rosenquinst che, in una intervista, dichiarava che le cose che comparivano nei suoi dipinti «non erano veramente vecchie da diventare nostalgiche ma nemmeno nuove abbastanza da suscitar passioni». E’ indubbio che la Campilongo posi il suo occhio sulla realtà, ma il suo quotidiano risulta leggermente retrodatato, quasi a creare, appunto, quel lieve scarto che sollecita la memoria e relega il soggetto al ricordo appena trascorso. Ripensando a “La porta sembra aperta”, “Giovanni e Giovanni”, “Assenzio”, “Corteggiamento in orario di chiusura” e “Domani sarà un giorno migliore”, opere tutte degli anni 2003-2004 eseguite con varie tecniche, incontriamo, nella estrema naturalezza delle scene, un vago sentimento di già visto: dal copriletto goffrato al mobile da toeletta, dalla lampada col paralume rosso alla gonna fiorata, dal camice corto dell’infermiera al cappello dell’avventore. Tutto rimanda un po’ indietro nel tempo.
Una attenzione particolare merita un nutrito gruppo di lavori degli anni 2003-2004, alcuni dei quali già citati, in cui l’artista usa la bicromia, il bianco e nero con tutte le gradazioni intermedie di grigio. Indubbio è il richiamo al bianco-nero di Richter, ma non certo per emulazione quanto per affinità di sentire: l’esigenza di ricollegarsi all’universo filmico anch’esso di buona memoria.
Nell’osservare ognuno di questi dipinti, sia singolarmente che in sequenza, si ha l’impressione di trovarsi di fronte allo story board per una fiction. Una fiction ambientata ai nostri giorni, ben inteso, ma che, pur nella logica di registrare la realtà è lontana dal reale proprio come una fiction. Tutti i personaggi, infatti, concentrati nella loro parte, sembrano dimentichi dell’altro da sé. Il fruitore è chiamato, di volta in volta, ad entrare nella scena e cercare di carpire i sentimenti del o dei protagonisti, colti prevalentemente in situazioni problematiche.
E’ certamente la ricerca cromatica uno dei dati distintivi di questa pittura. Il colore, infatti, spesso è rarefatto fino a ridursi non solo al bianco-nero, ma, in alcune delle ultime opere (“Nel cammino della mia vita” e “Ti racconto un sogno”), anche a due o tre colori: giallo-rosso-viola, giallo-viola-nero, con effetti quasi di solarizzazione. Qui la componente cromatica non scardina il vero ma ne sottolinea la componente magica.
Entriamo dunque nello story board di Antonietta Campilongo per rivivere con lei anche la “nostra” vita perché, sicuramente, molti di noi si ritroveranno nelle situazioni da lei evocate, con gioia o con disagio, ma sempre con quel distacco che è merito del campo estetico.
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